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L'Emilia nel cuore.

Quando cominciò a bollire nella pentola della mia testa l'idea di FuoriModena.

Ogni anno, verso la fine di luglio, sento l'irrefrenabile bisogno di recarmi in Emilia, terra d’origine dei miei genitori. La meta è Polinago, poco più di un borgo nel cuore dell'Appennino Modenese, dove ho trascorso molte estati della mia infanzia.

Parto a metà mattinata per tagliare tutta la pianura Padana: Lonigo, Cerea, Legnago, Ostiglia. Una sosta per contemplare il grande fiume che nella stagione calda scorre lento e grigio. Poi Poggio Rusco, Mirandola, Modena. Amo questo percorso attraverso le strade che hanno segnato la storia delle genti Padane, piuttosto che l'itinerario industriale lungo l'autostrada del Brennero.

Un viaggio fatto di andature lente in cui non è importante l'ora di arrivo, ma la contemplazione dei luoghi, il brivido lungo la schiena ascoltando Nessun Dorma dell'infinito Pavarotti, a tutto volume nel cd dell'auto, l'italica fierezza che si sprigiona nel cuore guardando la fabbrica della Ferrari mentre il sole di mezzogiorno, impietoso, martella la testa.

Io col toscano sempre semiacceso tra le labbra guido in stato di totale assenza da qualunque pensiero che non sia il cesto di gnocco fritto e di tigelle, al battuto di lardo e alla bottiglia di lambrusco che mi regalerò per cena. Il telefonino è spento.

Prima o poi mi imbatto in qualche festa dell'Unità che in questa stagione, una volta passato il Po dalle acque luccicanti ed entrato nella culla del comunismo italiano, non manca mai dalla notte dei tempi, almeno i miei. Magari mi ci fermo al ritorno per ascoltare l'orchestra spettacolo di turno, bere una birra o soltanto per origliare i discorsi tutto sangue di qualche contadino trotzkista e mangiapreti, parole triviali, arrabbiato col governo che, in canottiera e calzoncini corti, divora l'ennesima sigaretta senza filtro, volto e braccia bruciate dal sole, adesivo rosso coi simboli del partito ben appiccicato sul petto.

Poi finalmente Modena: se ho voglia mi concedo una sosta per una passeggiata in Via Emilia sotto i portici ad ascoltare il gran baccagliare dei modenesi. Se non è giornata via diritto sugli Appennini.

Il paesaggio straordinario dai colori tenui e rilassanti è dominato dai calanchi, da molti scrittori paragonati a bolge dantesche. I calanchi sono formazioni del terreno causate dall'erosione delle acque di dilavamento in terreni argillosi o marnosi che vengono incisi da incanalature profonde separate da costoni a forma di lama di coltello. La sensazione è quella di passare da territori lunari a luoghi dove il tempo si è fermato.

Le strade sono quasi sempre strette e tortuose. Le case sono costruite in pietra arenaria. Tutto questo – e molto altro – forma quella forza irresistibile che mi fa tornare in Emilia, con la stessa attrazione fiabesca con cui un marinaio viene ammagliato dal canto di una sirena: le tigelle ed il gnocco fritto.

Per una gran parte del territorio questi piatti caratteristici rappresentano il comune denominatore che coniuga ingredienti della tradizione popolare e domestica con elementi culturali in atmosfere di festa e di gioiosità condivise. Come a FuoriModena.

Claudio Roncaccioli